Ricordi di guerra - Librizzi

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Memorie della Seconda Guerra  Mondiale
                                                 di Maria Muscarà Ingham

I miei ricordi di Guerra sono quelli di una bambina che li rivive dopo sessant’anni con gli occhi di una adulta. I colori, i rumori della guerra, la fame, la paura sono i ricordi più vividi sebbene frammentati. Le emozioni evocate sono sincere sebbene dolorose.  La guerra non giovava a nessuno, né ai ricchi né ai poveri.  C’era per tutti scarsezza di alimenti, di vestiario, e di tutto ciò che normalmente è necessario nella vita quotidiana.  Per questa ragione molti dei miei ricordi sono collegati alla costante ricerca di generi alimentari e di altre cose essenziali.

Quando la nonna Maria Rottino e la mamma Fortunata De Luca andavano a Bivio Colla e dintorni per comprare qualsiasi genere alimentare disponibile, io, spesso, le accompagnavo. Il nonno don Peppino Muscarà aveva dei terreni nei pressi di Bivio Colla, in località Feo, che da secoli erano proprietà della famiglia Muscarà.  Per questa ragione le famiglie che vivevano vicino al Feo conoscevano bene i miei nonni e se avevano qualcosa in più gliela vendevano.

Dal mosaico delle immagini di quei tempi emerge il ricordo del giorno in cui la nonna ha potuto comprare del frumento e siamo andate a un mulino ad acqua, nei pressi di Colla, per farlo macinare.  I miei familiari erano contentissimi per ‘il miracolo’ del frumento comprato, ma io ero affascinata dal movimento della ruota del mulino e dalla danza dell’acqua che  saltava da pala a pala. Non so di chi era il mulino,  ma voglio credere che fosse quello dei Cilona,  nella cui famiglia  vi sono antenati di mia mamma.

Il frumento era un nutrimento per il corpo, ma in me i campi di grano vicino Colla suscitano vividissimi ricordi di guerra.  Ricordo file infinite di soldati tedeschi in marcia, e gli spaventosi rumori dei loro scarponi.  Alle file di quei soldati abbino sempre il ricordo dei campi di grano e delle spighe dorate che ondeggiano sotto un risplendente cielo azzurro.  I papaveri rossi fra le spighe di frumento, con la loro bellezza, rendevano idilliaco il mio campo.  Ero bambina e a quei tempi non potevo analizzare i due aspetti contraddittori, la bellezza della natura, dono di Dio, e la violenza della guerra ideata da uomini spietati.  Molti anni dopo ho letto il libro ‘Paz en la Guerra’ (Pace nella Guerra) di Miguel di Unamuno e, ricordando le mie esperienze di guerra,  ho potuto comprendere l’apparente assurdità del titolo e l’argomento della storia.  

Il ricordo più triste è legato all’invasione della Sicilia, durante l’operazione ‘Husky’.  Gli americani bombardano i ponti per ostacolare la ritirata dei tedeschi e per facilitare l'occupazione delle postazioni militari tedesche.  La nonna, la zia Teresa, la mia mamma, ed io, come al solito, ci troviamo a Colla per comprare alimenti.  Camminiamo vicino ad un ponte quando all’improvviso sentiamo il rombo degli aerei da combattimento.  Alcune persone immediatamente si allontanano dal ponte, mentre la mia famiglia vi si rifugia sotto.  Un tremendo errore, vero?  Certo. Era il ponte che gli americani volevano distruggere, e noi, invece di sottrarci al pericolo, ci  mettiamo a rischio di essere colpite dalle bombe.  Ma, evidentemente, il destino ci era favorevole: le bombe mancano il ponte e scoppiano, invece, esattamente dove si erano rifugiate le altre persone.  In quel momento spaventoso si compì il loro triste destino e rimasero uccise.  Non so chi erano quelle povere vittime di guerra ma non le ho dimenticate mai.  

La fame era una fedele compagna, a quei tempi, e la gente cercava di cavarsela come meglio poteva.  Se non c’era la farina di frumento, la mia mamma macinava i prodotti  delle nostre campagne (nocciole, mandorle, castagne...), e con quell’impasto faceva il pane. Era un pane "robusto” dal sapore inconsueto, ma placava i morsi della fame.  La mia mamma spesso non mangiava niente perchè dava la sua porzione a me e a mio fratello Pippo.
Non tutti i ricordi di quei tempi sono tristi. Un giorno, come sempre, avevo fame e non c’era niente da mangiare.  La nonna Maria Rottino decise di portarmi a casa della famiglia di sua mamma, i Marziano, sperando che almeno loro avessero un tozzo di pane da condividere con me.  Stavano cucinando delle frittelle:  non avendo farina usavano la pula del frumento.  I Librizzesi, in tempi normali, con la pula nutrivano le loro galline, ma nei tristi tempi di guerra è necessario arrangiarsi!  

Incominciò a mangiare  questa insolita frittella e, nello stesso momento, si leva un ‘chicchirichì’ cantato da un uomo che stava lì accanto, accovacciato con una frittella in mano! Era un parente avvocato, ma non ricordo se era un fratello della nonna o un suo zio.  Ancora oggi rido ogni volta che mi ritorna alla mente questo episodio e sono contenta di ricordare che i miei antenati affrontarono le sofferenze e i sacrifici della guerra con coraggio e un bel senso di umorismo. Pace nella guerra, buonumore nella tragedia assurda.

Un esempio della semplicità dei Librizzesi e della loro abilità di adattarsi nei tempi terribili è quello del mio bellissimo vestito bianco.  Come per tutte le altre cose, era difficile trovare anche la stoffa per cucire i vestiti.  La mia mamma aveva un boa di pelliccia riempito di qualcosa di soffice: lo portò al negozio di sua cugina Caterina Calabrese e, insieme, lo scucirono per scoprire la natura dell’imbottitura: vi trovarono della mussolina bianca che trasformarono in un bellissimo vestito per me.  Certo era più bello che gli indumenti fatti di sacchi di patate che alcuni Librizzesi erano costretti ad indossare in quei tempi tristi!

Ho già ricordato l’arrivo in  Sicilia degli Americani e dei loro alleati  e il loro tentativo di impedire la ritirata dei soldati tedeschi che ripiegavano. Allo stesso modo i Tedeschi distruggevano, dietro di loro, strade, ponti,.... per ostacolare l’avanzata degli alleati.  I durissimi bombardamenti aerei degli alleati e i contrattacchi dei tedeschi diedero vita a battaglie accanite, violentissime, senza tregua.  Sull’orizzonte di Patti e lungo tutta la costa del  Nord-Est l’azzurro del cielo normalmente sereno e limpido diventò un caos infernale di macchine da guerra. I Macchi italiani, i Messerschimitt e i Stuka dei tedeschi, gli Spitfire inglesi, i Thunderbolts degli americani affollavano il cielo e si intrecciavano in una danza macabra che spesso si concludeva con uno scoppio fiammante e con gli aerei che precipitavano come una palla di fuoco.  Di notte i bombardamenti illuminavano a giorno il cielo  e gli aerei in fiamme sembravano comete brillanti che traversavano il cielo per poi cadere su Patti.  

Questa vista era resa ancora più drammatica dal rombo degli aerei: un rimbombo strano, che, ancora oggi, quando avverto un rumore simile, con una reazione istintiva, provo la stessa paura di quei giorni lontani.  Ricordo che la mamma e altri Librizzesi quando udivano il rombo dei motori degli aerei, invece che nascondersi nei rifugi, correvano fuori casa per osservare quello spettacolo aereo. Non so se i Librizzesi fossero molto coraggiosi o se, semplicemente, credessero che Librizzi non fosse un obiettivo dei nemici.  Ricordo, però, che quando i soldati anglo-americani arrivarono nei pressi di Bivio Colla incominciò un fuggi fuggi verso le campagne, in direzione Pantano,  Fossa,....

Erano assai diffuse le voci di stupri e di violenza su donne e ragazzine ad opera dei soldati alleati.  Forse, i Librizzesi già conoscevano gli ordini del generale americano G. S. Patton (comandante della Settima Armata) agli ufficiali della 45th Infantry Division (i Thunderbirds) di uccidere i militari nemici che non si fossero ancora arresi quando le fanterie statunitensi fossero giunte a 200 yards di distanza.  O forse i Librizzesi già sapevano del Massacro di Biscari (oggi Acate) dove tra il 12 e il 15 luglio più di 70 prigionieri italiani (e due tedeschi) furono fucilati da due militari statunitensi.  O forse sapevano dei massacri di Comiso e Canicattì.  I Librizzesi, comunque, temendo il peggio si rifugiarono in campagna.

Quell’agosto del ’43 io ero una bambina di tre anni e otto mesi e non capivo le implicazioni della guerra.  Per me quell’episodio è un ricordo molto piacevole perchè fu il mio benamato nonno Pippinu Muscarà che mi portò in campagna.  A quei tempi il nonno possedeva dei cavalli e il giorno della fuga cavalcai uno di essi insieme a mio fratello Pippo, un infante di un anno e quattro mesi: lui stava davanti al nonno, mentre io lo abbracciavo forte forte da dietro.

Con una galoppata a briglia sciolta incominciò la nostra fuga verso la campagna.  Io ero contentissima,  abbracciata al nonno, con i capelli sciolti al vento, che accarezzava il mio visino.  Quella fuga è stata una corsa veramente molto esilarante per quella bambina di tanti anni fa.  Il nonno ci portò in una casa di campagna di un suo amico, nella quale già avevano trovato rifugio molti altri Librizzesi, e ritornò subito a Librizzi Centro per ‘salvare’ altri nipoti e altri familiari: fece avanti e indietro fino a quando tutta la famiglia fu portata lontana dal pericolo.

Assolto il suo compito di metterci in salvo, ritornò in paese per ‘difendere’ la sua casa, se necessario.  Sfortunatamente Pippo ed io fummo separati dal resto della famiglia, che aveva trovato sistemazione in un’altra casa di campagna.  Tutta la notte la mia mamma e altri parenti andarono alla nostra ricerca, ma ci trovarono solo il giorno dopo.

Giunge la nuova sera: i bambini  dormono in casa mentre gli adulti si coricano all’aperto.
Durante la notte mi sveglio e cerco la mamma; la trovo all’esterno insieme alle zie e alla nonna e mi corico con loro, sotto le stelle scintillanti, nella calda notte d’estate: provavo una piacevole sensazione di pace e di benessere.  Restiamo in campagna per alcuni giorni fino a quando gli Alleati  non sono abbastanza lontani da Bivio Colla e da Librizzi Centro.

La spedizione Husky termina in Sicilia il 17 agosto1943, lo stesso giorno in cui l’esercito tedesco si ritira in Calabria. L’otto settembre dello stesso anno Italia firma l’Armistizio con gli Alleati: quel giorno si scatena l’inferno sulla terra.
Per oltre due anni dall’armistizio mia mamma non ebbe più notizie di suo marito Antonino (Ninì) Muscarà, un soldato italiano di stanza in Grecia (nel Peloponneso).  Un giorno di ottobre del ’45 mio padre all’improvviso riapparve a Librizzi.  Disse di essere stato prigioniero di guerra nei lager di Germania dove i tedeschi lo avevano costretto a fabbricare bombe.  
Dopo i primi giorni, non parlò mai più delle sue esperienze di guerra, eccetto una volta prima di morire. Con il suo ritorno incominciò per me e per la mia famiglia un calvario di sofferenze, umiliazioni, angoscia.  Le azioni di mio padre erano bizzarre, imprevedibili, esplosive, senza spiegazione.  

La sua prima azione drastica fu di rasare i miei capelli e di mandarmi a scuola con la testa depilata come un pollo spiumato.  Immaginate le derisioni dei miei compagni di scuola e la vergogna che provai!

Giorni dopo preparò un bel piatto di pasta, ma non ce la servì perché voleva che ci cibassimo con l’acqua di cottura raffreddata.  Un altro giorno preparò un biancomangiare con fettine di lardo bruciato.  Non potevo mangiare quelle porcherie che mi facevano vomitare e preferivo subire gli inevitabili castighi.  Con il passare del tempo la sua pazzia peggiorava e le sofferenze inflitte a sua moglie e ai figli causavano danni irreparabili.  Allo stesso tempo lui soffriva di una immensa angoscia, piangeva, era pieno di rimorso, si sentiva disperato.  Fu deciso di emigrare in America sperando in un miglioramento del comportamento di nostro padre, ma le sue pazzie continuarono e anche peggiorarono: la nostra vita era un grande doloroso incubo.  Quel tormentato uomo che fu mio padre è morto nel 1985.  

Ma la storia non finisce con la sua morte.  Volevo capire perchè un uomo a volte magnanimo e dal cuore tenero all’improvviso e senza provocazioni si trasformava in un demonio maligno, un vero Jakell and Hyde.  Spesso mi domandavo “E’ matto?”. “E’ nato malvagio?”

Dopo la guerra del Vietnam apparvero nei giornali e sulle riviste americane storie di reduci che si comportavano male, diventavano responsabili di atti violenti, assumevano comportamenti antisociali, o si suicidavano.  I medici volevano capire perchè tantissimi reduci  erano violenti, depressi, autodistruttivi.  Fecero accertamenti clinici e conclusero che gli ex soldati soffrivano di Post Traumatic Stress Sindrome: una nuova malattia di natura psichiatrica causata da avvenimenti orripilanti vissuti durante una guerra, una malattia che si può controllare con la terapia e le medicine.

Leggendo questi saggi ho compreso che alcuni comportamenti e alcuni atti di mio padre erano simili a quelli dei reduci del Vietnam: allora ho deciso di ricostruire la storia militare di mio padre e di studiare la Seconda Guerra Mondiale. Ho trovato un inferno.

Il foglio matricolare e caratteriale di mio padre mostra che fu chiamato alle armi e il 28 luglio 1940  giunse al 3°  Reggimento Fanteria Piemonte di stanza in territorio dichiarato in stato di guerra.  Il 10 settembre 1940 è ricollocato in congedo a Messina.  Richiamato ancora alle armi, e incorporato nel 3°  Reggimento Fanteria Piemonte, è giunto in territorio dichiarato in stato di guerra il 4 luglio 1941.   L’otto febbraio 1943 ancora una volta raggiunge la Divisione Fanteria Piemonte dislocata in Grecia.  Fu assegnato al 303°  Reggimento Fanteria. L’otto settembre 1943 fu catturato e fatto prigioniero dai tedeschi e in tale condizione rimase fino all’8 maggio 1945. Fu trattenuto dalle FF. AA. Alleate fino al 9 agosto 1945.  Ritornò al suo paese, a Librizzi, nell’ottobre del 1945.

Nel 1943 la 29a Divisione di Fanteria Piemonte era formata da 3°, 4°, e 303°  Reggimento Fanteria Piemonte ed era dislocata nel Peloponneso con base a Patrasso. Il 303° Rgt. era di stanza nel settore Argolide.  Dopo l’8 settembre oltre 650.000  militari italiani finirono prigionieri in mano tedesca: mio padre fu uno dei catturati e fu forzosamente avviato ai lager in Germania. Per i soldati italiani in Grecia quei giorni di settembre furono giorni orribili per le umiliazioni, le barbare fucilazioni di massa, e le rappresaglie perpetrate dai tedeschi.  
In quegli stessi giorni più di novemila soldati della Divisione Acqui in Cefalonia e il loro Generale Gandin furono brutalmente massacrati.  La Resistenza nacque quel settembre quando i militari italiani rifiutarono di collaborare con i tedeschi e, per questo, furono internati nei campi di concentramento in Germania e costretti al lavoro coatto.  

Come hanno potuto i tedeschi trasformare i prigionieri italiani in ‘Schiavi di Hitler’? Bene, i tedeschi adottarono una soluzione semplice:  “Ai militari italiani non viene riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, essi vengono dunque esclusi dai benefici della Convenzione di Ginevra. Per ordine di Hitler gli italiani vengono classificati come Internati Militari Italiani, I.M.I.  Con questo artificio i tedeschi hanno mano libera nel loro trattamento e nel massiccio impiego nelle fabbriche del Reich.” (www.schiavidihitler.it )  

La degradazione e la disumanizzazione degli IMI  incominciò quando questi soldati furono ammucchiati come bestie su vagoni ferroviari e carri bestiame per il trasporto in Germania. Trascorsero molti giorni senza acqua, senza mangiare, privi di tutto inclusa la possibilità di smaltire i bisogni corporali: dovettero persino convivere con i cadaveri dei più sfortunati.  In stracci, affamati, assetati, sudici, pieni di pidocchi, impauriti, i soldati arrivarono ai campi di smistamento: li fecero spogliare completamente e mettere in fila, lasciandoli così per moltissime ore nella neve e sotto la pioggia a morire di freddo.

Poi furono sottoposti a getti di disinfettanti e, ancora nudi, furono portati in una stanza dove "c'era una grossa ruota rudimentale con un tubo e in cima a questo vi era una macchina per rapare il cuoio capelluto con relativa manovella che, a turno, la si faceva girare togliendo tutti i peli con un dolore tremendo, perchè più di tagliare i capelli li strappava.” (Racconto di Albertina e Giovanni, su  www.indiapr.it/giovannialbertina ).

E intanto i tedeschi gridavano “Italiani, traditori!  Ora siete in Germania: ve la faremo veder brutta! Tu! Italiano di merda!....” Dai campi di smistamento i nostri militari furono trasferiti nei campi di concentramento per il lavoro coatto.

Mio padre fu destinato a una fabbrica di munizioni con il compito di costruire bombe. Fu mandato alla fabbrica sotterranea Dora: un sottocampo di Buchenwald?  Furono le bombe V1 e V2 che gli fecero fabbricare?    

Per i successivi due anni gli IMI soffrirono la scarsezza di cibo e la fame fu loro costante compagna.  I loro pasti consistevano in acqua bollita con bucce di patate, o rape, o pannocchie del granturco sgranate, o di un piccolo tozzo di pane fatto per la maggior parte di segatura.
Affamati e disperati gli IMI cacciavano topi, mangiavano erbe, cercavano nei rifiuti bucce di patate e altri resti nonostante sapessero che, se scoperti dai tedeschi,  sarebbero stati severamente picchiati, o fucilati, o mandati ai campi di sterminio. Mia sorella, recentemente, mi ha detto che prima di morire nostro padre raccontò che nel lager ogni volta che cercava bucce di patate nei rifiuti lo picchiavano brutalmente con il calcio del fucile.

Anche se privati di tutto, ammalati, denutriti, ridotti a scheletri viventi erano costretti a lavorare 12 o più ore al giorno. D’inverno camminavano nella neve per raggiungere il posto del loro lavoro coatto vestiti di brandelli e senza scarpe. Quando gli IMI non erano più in condizione di lavorare venivano mandati ai campi di sterminio. Dei più di 650.000 IMI nei lager di Germania 60.000 non sono ritornati in patria, uccisi nel mattatoio tedesco. Laceri, sconvolti e traumatizzati gli IMI che sopravvissero ai lager ritornarono in una Italia che non ha voluto sapere delle loro sofferenze, in una Italia che voleva solo dimenticare la guerra al più presto.

Nel silenzio della loro Patria e non compresi neanche dalle loro famiglie, alcuni reduci                
‘dimenticarono’ la loro prigionia e si ‘adattarono’ a vivere; altri si suicidarono; e per altri fu un lento suicidio, un tormento della mente che durò una vita. Io credo che mio padre, una vittima di Hitler, fu un morto vivo, un naufrago. Segnato nel fisico e nella mente, la vita fu per lui un lento suicidio.  

Voleva pace ma non la trovò mai. Le sue sofferenze furono le sofferenze della sua famiglia e fino alla sua morte la guerra continuò nella nostra casa, la pace fu un sogno illusorio. Chissà, forse con la sua morte fisica finalmente è terminata la guerra per mio padre ed ha trovato la sua pace.  Amen.   

Ho letto moltissime testimonianze sul sito http://www.schiavidihitler.it e su altri siti web, ho letto libri scritti da sopravviventi dei lager,.... Tutto quel che ho letto ha in comune il leitmotif della fame, delle bastonate, degli eccidi, della paura, della spersonalizzazione, della degradazione, delle pene, delle sofferenze ...   

La memoria di V. Giuseppe intitolata “Siamo i dimenticati” dà qualche precisazione:
1.      Assistenza Croce Rossa, per noi italiani NESSUNA, (eravamo considerati “i traditori”)
2.      ....il lavoro coatto, umiliazioni, angherie, botte...
3.      Vitto: consisteva in rape, bucce di patate, qualche carota (il tutto cotto in acqua), poco pane confezionato al 70% con segatura, ....
4.      Servizi igienici inesistenti: consistevano in bidoni vuoti di benzina;
5.      Igiene in genere: inesistente; pidocchi, cimici, pulci a volontà
6.      Inviti ad aderire alla Repubblica di Salò: molti, specie nel primo anno;  Adesioni: pochissime.
7.      AIUTI AVUTI DAL GOVERNO ITALIANO: mai nessuno.  Siamo “I dimenticati”.

Dalle memorie di un internato:  “Raccontare poco non era giusto, raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare.  Sono stato prigioniero e bon, dicevo”.

Dice il filosofo Jean Amèry, torturato dalla Gestapo e deportato ad Auschwitz: “Anyone who has been tortured remains tortured [...] Anyone who has suffered torture never again will be able to be at ease in the world, the abomination of the annihilation is never extinguished.  Faith in humanity, already cracked by the first slap in the face, then demolished by torture, is never acquired again.”  ("Chi è stato torturato rimane torturato [...]   Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai.  La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più").

Dice T. Vittorio: “Rispetto a tanti miei compagni, (specie quelli che non sono più tornati) sono stato fortunato.  Se così si può dire di uno che comunque è passato per i lager di Hitler.”

Primo Levi racconta la sua esperienza vissuta nel Lager nel suo libro “Se questo è un uomo”. Questa è la poesia che fa  da preludio al racconto:

                                                                      Se questo è un uomo
                                                                      Voi che vivete sicuri
                                                                      Nelle vostre tiepide case,
                                                                      voi che trovate tornando a sera
                                                                      Il cibo caldo e visi amici:
                                                                      Considerate se questo è un uomo
                                                                      Che lavora nel fango
                                                                      Che non conosce pace
                                                                      Che lotta per un pezzo di pane
                                                                      Che muore per un sì o per un no.
                                                                      Considerate se questa è una donna,
                                                                      Senza capelli e senza nome
                                                                      Senza più forza di ricordare
                                                                      Vuoti gli occhi e freddo il grembo
                                                                      Come una rana d’inverno.
                                                                      Meditate che questo è stato:
                                                                      Vi comando queste parole.
                                                                      Scolpitele nel vostro cuore
                                                                      Stando in casa andando per via,
                                                                      Coricandovi alzandovi;
                                                                      Ripetetele ai vostri figli.
                                                                      O vi si sfaccia la casa,
                                                                      La malattia vi impedisca,
                                                                      I vostri nati torcano il viso da voi.


                       * * * * * * * *

                                                                 Dedico queste memorie a tutti gli I.M.I.
                                                                           “Per non dimenticare”
                                                                                “Lest we forget”
                                                                         Maria Muscarà Ingham


Fonti consultate:

Primo Levi:
1.      “Se questo e un uomo”
2.      “La tregua”
3.      “I sommersi e i salvati”

Luis De Bernieres:
1.      “Corelli’s Mandolin”

Siti sul Web:
1.      www.schiavidihitler.it  
2.      http://www.comune.dairago.mi.it/ITText/storia/diari.htm   Sezione Storia Rimembranze Diari.  Leggere specialmente il Diario di Carlo Colombo: Memorie di un deportato in Germania(1943-1945)
3.      www.indiapr.it/giovannialbertina  “La lunga marcia verso casa”
4.      http://itcleopardi.scuolaer.it/page.asp?Tipo=GENERICO&IDCat...   Molto interessante la sezione “Il soldato italiano nel lager nazista” testo di Astro Gambari.

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